Andria, Graziella Mansi abusata e bruciata viva a soli 8 anni: si aspetta ancora la giustizia

di admin

Andria, Graziella Mansi abusata e bruciata viva a soli 8 anni: si aspetta ancora la giustizia

| domenica 01 Dicembre 2019 - 13:06

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Andria, Graziella Mansi abusata e bruciata viva a soli 8 anni: si aspetta ancora la giustizia

Il giorno 20 agosto scorso ricorreva il diciannovesimo anniversario della morte della piccola Graziella Mansi, cagionata – secondo la “verità processuale” sancita dai Giudici che della vicenda si sono al tempo occupati – da un «branco» di giovanissimi andriesi, composto da Pasquale Tortora, Giuseppe Dibari, Vincenzo Coratella, Michele Zagaria e Domenico Margiotta.

Del tragico e brutale omicidio della minore sono tornati dunque ad occuparsi, doverosamente, quotidiani ed emittenti televisive, perché il ricordo di quanto avvenuto non venga mai meno ed a tal fine per ribadire i contenuti di quella “verità processuale” affidata a sentenza irrevocabile.
gli «sconfitti»Occorre, tuttavia, che ancora oggi la gente, che legge i giornali, vede i servizi televisivi e commenta quei fatti, ascolti la voce degli “sconfitti”, cioè di alcuni dei condannati che scontano l’ergastolo, attraverso la testimonianza di uno dei loro difensori nei processi celebrati tra gli anni 2000 e 2004. (Continua…)

Ho difeso fiduciariamente, assieme al compianto “maestro” avv. Aurelio Gironda, gli imputati Giuseppe Dibari e Vincenzo Coratella. Ed avverto il dovere morale di gridare a gran voce, come ininterrottamente ho fatto nel corso di quasi un ventennio, che i miei assistiti sono innocenti, al pari di Domenico Margiotta e Michele Zagaria, in quanto l’unico responsabile di tutte le condotte di cui fu vittima la povera Graziella è e rimane il coimputato Pasquale Tortora. Condannato alla pena di trenta anni di reclusione, a seguito di giudizio abbreviato (laddove gli altri optarono per il rito ordinario). Non è certamente questa la sede per affrontare i temi trattati in ambito processuale. Ma alcuni argomenti devo, per mia tranquillità, evidenziare all’attenzione dei lettori, sul presupposto – che nessuno deve mai dimenticare – che la giustizia fatta dagli uomini è fallibile. E le persone condannate all’ergastolo sono vittime, anche loro, a mio avviso di un mostruoso errore giudiziario.

Venendo, così, brevemente al merito (con la consapevolezza della parzialità dell’enunciazione). E’ scritto nella Sentenza della Corte di Cassazione. L’ora dell’omicidio di Graziella, avvenuto a circa 2 km in linea d’aria dal luogo in cui fu “sequestrata”, può essere stabilito intorno alle 19.30. L’inizio della fuga degli autori del fatto (io dico dell’autore) intorno alle 19.40. Ebbene, Dibari e Coratella avrebbero avuto a disposizione poco più di venti minuti, secondo la ipotesi accusatoria, per allontanarsi a piedi dal luogo del crimine, percorrere un lungo e tortuoso itinerario nei boschi di Castel del Monte per raggiungere l’autovettura con la quale al castello erano pervenuti parcheggiata in zona defilata, rientrare ad Andria secondo il percorso più breve (siamo in periodo ferragostano, con un traffico veicolare accertato intensissimo il giorno 19 agosto), accedere alle proprie abitazioni per lavarsi e cambiarsi d’abito (le rispettive case distavano tra di loro circa 1 km), percorrere a piedi il centro abitato e ritrovarsi infine puliti-ordinati-sereni, avanti alle telecamere della Banca popolare Andriese alle ore 20.04! I Giudici hanno scritto in termini di «compatibilità» tra i tempi occorrenti per il rientro ad Andria, dopo la commissione del reato ed il momento della presenza accertata davanti alla banca. (Continua…)

Ma hanno rigettato tutte le ineccepibili richieste della difesa di disporre una perizia, un esperimento giudiziale ovvero un qualsivoglia diverso accertamento tecnico che consentisse di affermare che quella ipotesi accusatoria (i 20 minuti sufficienti) era e resta semplicemente risibile! Neppure Nembo Kid o Speedy Gonzales sarebbero stati capaci di tanto! La verità è stata calpestata per esigenze di copione. Sfido chiunque a provare il contrario. Cardine fondamentale dell’accusa è stata la chiamata in correità operata da Pasquale Tortora. Il cui racconto, compiuto nel corso del suo esame dibattimentale, (più correttamente nel corso dell’incidente probatorio) è risultato (così la Corte di Assise di Trani) «oltre che spontaneo, immune da contraddizioni, alieno da valutazioni dettate da convenienze processuali e perciò sostanzialmente conforme al vero». Alla difesa è stata iniquamente negata la possibilità di reinterrogare il Tortora, dopo che era stata acquisita agli atti del processo la perizia psichiatrica disposta nei suoi confronti dalla Corte di Assise di Appello di Bari (nel corso del giudizio abbreviato), svolta attraverso un collegio composto da due luminari della psichiatria forense, i professori Nivoli e Catanesi. I quali hanno scritto : «Nei sui racconti, tanto quelli forniti ai periti, quanto quelli contenuti in atti, saltano agli occhi due aspetti: 1) l’uso abbastanza ricorrente di bugie, piuttosto evidenti; 2) incertezze e continui cambiamenti rievocativi in ordine ai fatti oggetto dell’indagine… presentati in modo sempre diverso per quanti sono i tentativi esperiti». E poi:

«E’ semplificativo, a nostro avviso, che il Tortora abbia ammesso ai periti di non aver mai detto la verità, il che significa che ha una coscienza di qual sia il suo ricordo, ma che fornisce volutamente delle ricostruzioni diverse». Ancora: «Più d’una è stata la motivazione fornita a giustificazione delle sue contrastanti versioni… intrise tutte da una valenza difensiva o dalla ricerca di un vantaggio personale (… una collaborazione nel senso voluto dal Pubblico ministero avrebbe potuto consentirgli un temporaneo ritorno a casa)». «Ha ammesso che in realtà non ha mai avuto intenzione e non l’ha ancora di riferire i fatti per come realmente verificati…» «…la volontà di proporre i fatti che egli sa non essere veri, ossia bugie…». Questi ora esposti i parziali, ribadisco, presupposti di una sentenza di condanna all’ergastolo. Che Giuseppe Dibari sta scontando con immensa dignità (non intende usufruire delle misure alternative alla detenzione cui potrebbe pur accedere perché non accetta la condizione, che gli si impone, di dichiararsi pentito del crimine che avrebbe commesso). E che Vincenzo Coratella non si è sentito di espiare, suicidandosi in carcere non perché avvertiva, come è stato detto, il peso morale dell’omicidio posto in essere, bensì incitando gli amici di cella a “non arrendersi mai” (in tal senso il suo breve messaggio scritto prima di chiudere l’esperienza terrena). La disperazione di uomini condannati per un delitto non commesso fa il pari al senso di impotenza di un difensore che ha esperito ogni tentativo (plurime richieste di revisione, sommariamente disattese dalla Corte di Appello di Lecce) per far emergere una verità diversa da quella emersa dal processo. Continuerò nella mia battaglia professionale, pur consapevole che la strada si fa sempre più stretta. Mentre attendo che di qui a poco venga fuori dal carcere, grazie ai benefici premiali, Pasquale Tortora, l’imputato che ha sempre mentito, anche e soprattutto con riguardo alla responsabilità degli altri imputati. Ah, dimenticavo, Giuseppe Dibari e Vincenzo Coratella si sono sempre proclamati innocenti.

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